A Piermario Morosini.

La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto.Fernando Pessoa

Ho guardato il video anche stasera.E ti ho visto cadere di nuovo.
Tre volte, sei caduto.
Proprio come il Nazareno.

Nel calcio la sfortuna non esiste.

Lo ripete sempre il Mister: Ragazzi, dice, nel calcio la sfortuna non esiste, mettetevelo in testa, ci sono tiri sbagliati, ci sono errori, c’è mancanza di concentrazione, quella che voi chiamate sfortuna è un tiro sbagliato, un errore, una mancanza di concentrazione, ricordatevelo, ricordatevelo sempre. 

E noi tutti intorno a vociare protestando – protestando con affetto, perché gli vogliamo bene –, tutta una squadra di Under 18 a ricordare la partita di Moscufo. 

Ma Mister, si ricorda di Moscufo? Ma non siamo stati sfortunati, noi, a Moscufo? Si ricorda, Mister? Quel gran tiro di Roby che ha preso il palo interno, ha ballato su tutta la linea, ha colpito l’altro palo ed è tornato tra le mani del portiere? E poi quel sinistro da fuori area di Stefano che ha preso la traversa interna e la palla è rimbalzata un millimetro fuori dalla porta? E poi al novantesimo la palla stava per uscire in fallo laterale e invece ha toccato la bandierina del calcio d’angolo ed è finita sui piedi del loro numero sette che l’ha data al tizio con il nove, e quello ha tirato così male, ma così male che quel pallone sarebbe finito dalle parti di Congiunti se non avesse colpito lo stinco di Matteo cambiando completamente direzione e spiazzando il nostro portiere.

Insomma, Mister, abbiamo perso per un autogol al novantesimo minuto su assist della bandierina del calcio d’angolo dopo aver colpito una traversa e un doppio palo, non è sfortuna, questa qui?

Questo avevamo ricordato tutti in coro al nostro Mister. Magari con qualche condizionale in meno, e qualche frase costruita un poco peggio.

E il Mister aveva sorriso e aveva detto, calmo e tranquillo: Ragazzi, Roby ha fatto un gran bel tiro. Ma se avesse mirato un millimetro più in là la palla sarebbe finita dentro e non sul palo interno. E Stefano ha calciato quasi alla perfezione, ma quasi, appunto, perché se avesse calciato alla perfezione la palla sarebbe finita in rete e non sulla traversa, e se i nostri difensori non avessero dato per scontato il fallo laterale – e non ha fatto nomi, perché quando uno di noi fa un errore il Mister lo prende da parte e glielo spiega singolarmente anziché crocifiggerlo davanti a tutta la squadra, il Mister non avrebbe mai detto: Se Giovanni non avesse dato per scontato eccetera –, dicevo, se i nostri difensori non avessero dato per scontato il fallo laterale e avessero seguito quella palla, ecco, il numero sette non l’avrebbe recuperata, e se avessimo fatto bene la diagonale il numero nove non avrebbe potuto neppure tirare, capito? La sfortuna, ragazzi, non esiste. Sono tutti errori.

Per me quello che dice il Mister è oro, intendiamoci, e anche il mio papà, che i miei allenatori precedenti li ha odiati tutti uno dopo l’altro, a questo qua gli vuole bene. Una volta si sono messi a parlare di vecchie partite degli anni Novanta e poi sono finiti a discutere delle serie TV di quando erano ragazzi, e al ritorno papà mi ha ripetuto: Quanto è bravo questo allenatore nuovo, mica come quei penosi gerarchi fascisti che sanno solo urlare che bisogna tirar fuori le palle, no, questo sì che vi insegna a giocare a calcio e a stare in campo, questo ascoltalo che ne vale la pena, Giacomo.

E io lo ascolto, il Mister.

Però il mio papà mi ha insegnato il pensiero critico, e mi ha fatto capire che a volte le parole possono essere interpretate. Se il Mister dice che la sfortuna nel calcio non esiste, lo dice per responsabilizzarci, per non farci trovare alibi e scuse, lo sa anche lui che se perdi a Moscufo con un doppio palo e una traversa e un assist della bandierina e un autogol al novantesimo hai avuto una sfiga pazzesca.

E se una nuvola si sposta proprio nel preciso momento in cui gli avversari battono un calcio d’angolo ed esce il sole e acceca il nostro portiere che non vede il pallone e prendiamo gol così, non è sfortuna, quella? O un’auto tampona un pullman sulla statale che passa accanto al nostro campetto e l’arbitro si distrae per il rumore una frazione di secondo e proprio in quella frazione di secondo c’è un fallo da rigore che non vede?

Non è sfortuna, quella?Che ne dici, Piermario?

Non esiste, nel calcio, la sfortuna?Te la sei presa addosso tutta tu?

Cadi in ginocchio. Come se ti fosse mancata la forza nelle gambe.Lì, spostato a sinistra, dalla parte delle panchine.

Ti rialzi. Ricadi come se ti avessero tagliato i fili.Ti rialzi. E poi cadi in avanti.Sull’erba.E non ti rialzi più.

Io guardo la tua maglia appesa in camera.

 

Qui a Pescara chi non tifa Pescara tifa per quelle che mio padre chiama con tanto disprezzo nella voce le squadre nazional-popolari. Qualcuno per la Roma. Qualcuno simpatizza per il Napoli.

Io, mosca bianca, tifo per il Bologna.

Tifo per il Bologna perché mio padre, nato e cresciuto a Montesilvano, tifa per il Bologna. E tifa per il Bologna perché in quella città ha fatto l’università, e sono stati gli anni più belli della sua vita, dice. E mi ha chiamato Giacomo come Bulgarelli, la bandiera del Bologna. Così io, sì, per il Pescara ho un moderato affetto, ma quel giorno, prima partita del campionato di serie B 2006-2007, Pescara-Bologna, io in cuor mio tifavo Bologna. 

Anche se facevo il raccattapalle a bordo campo con gli altri bambini delle squadre giovanili e avevo addosso la tuta del Pescara, il mio cuore batteva per Claudio Bellucci e Lamberto Zauli e Massimo Marazzina. 

E quando Amoroso aveva segnato il gol della vittoria del Bologna, io, con gli occhi a forma di cuore, pur senza manifestare emozioni, avevo pensato: dopo chiedo la maglia ad Amoroso e la regalo a papà.

E quando l’arbitro aveva fischiato il novantesimo c’era stata una gran confusione in campo, tra i giocatori del Bologna che si abbracciavano e quelli del Pescara che andavano a sacramentare con l’arbitro e i guardalinee, e io mi ero fiondato tra tutte quelle gambe e avevo visto uno del Bologna con i capelli un po’ lunghi come Amoroso, ero andato di corsa da lui e gli avevo chiesto: Scusa, per favore, mi daresti la tua maglia?

Di essermi sbagliato me n’ero accorto quasi subito. Il ragazzo con i capelli lunghi era più alto è più longilineo di Amoroso, e quando sorridendo mi aveva dato la maglia quella non era granché sudata. Era la maglia di uno che è stato seduto tutto il tempo in panchina.

Eppure il ragazzo sembrava contento e felice per la vittoria della sua squadra, anche se non aveva contribuito più di tanto. Avevo detto grazie ed ero uscito stringendo un po’ furtivo il mio bottino, per non far vedere agli altri che avevo chiesto la maglia a uno del Bologna.Solo dopo avevo guardato il nome stampato sulla schiena: MOROSINI.

Avrebbero potuto salvarti, dicono.

Se avessero usato il defibrillatore.Se non ci fosse stata un’auto dei vigili urbani a impedire l’entrata dell’ambulanza sul campo.Se non si fosse perso del tempo fatale per spostare quell’auto.Se qualcuna delle mille visite mediche che hai sostenuto nelle squadre in cui hai giocato avesse diagnosticato quella rara malattia ereditaria al cuore.Se.Se.Se.Ma la sfortuna, nel calcio, non esiste.No?

L’avevo rivisto poco dopo, il ragazzo che mi aveva dato la maglia. Avevo fatto il giro dietro lo stadio con le mani nella mia tuta del Pescara, e avevo fatto in modo di passare vicino al pullman della squadra ospite.

E ti avevo visto.

Sorridevi ancora. Stavi parlando con un tuo compagno di squadra, uno dei gemelli Filippini, non saprei dire se Emanuele o Antonio. Avevo cercato di intercettare le vostre conversazioni.

Non parlavate di calcio. Stavate parlando di Ligabue, il cantante, e Filippini ti stava dicendo: Dai, grande, allora una sera portiamo le chitarre, suoniamo e ti insegno gli accordi di qualche canzone del Liga

E poi eravate saliti sul pullman, e io avevo portato la tua maglia al mio papà, e mio papà l’aveva guardata con gli occhi che splendevano, aveva detto: La maglia del mio Bologna, la vera maglia del Bologna, oh, hai visto Amoroso che gol, eh, Giacomo?

Quella storia delle tre cadute del Nazareno la so perché mia nonna materna è tutta fissata con la chiesa e con la messa, e mia madre, be’, non è fissata come la nonna, ma un po’ ci sta dentro pure lei.

Discutono spesso con mio padre su questo argomento.

Mi ricordo quando dicevo: Papà, ha detto la nonna che non bisogna fare questo e poi quello perché altrimenti Gesù piange. E lui alzava le spalle e mormorava: È un punto di vista.

Così diceva: È un punto di vista.

E poi c’è quel telefilm che piace tanto a mia madre e molto meno a mio padre, che se ho ben capito è un telefilm vecchio, vecchissimo, degli anni ’80, tipo, di quelli che fanno vedere in replica su uno di quei nuovi canali satellitari, e mia madre lo vuole sempre vedere perché le ricorda quand’era più giovane e mio padre lo guarda con lei ma un po’ lo odia. Credo che si intitoli La casa nella prateria o qualcosa del genere.

C’è questa famiglia che ringrazia sempre il Signore. Il Signore scoperchia la loro casa con un uragano e loro pregano e ringraziano il Signore. Muore tutto il bestiame e loro pregano e ringraziano il Signore. Il Signore scaraventa su questa povera famiglia tutte le piaghe della Bibbia e loro ringraziano e pregano. E qui mio padre non riesce mai a trattenersi, fa una battuta delle sue e mia madre si arrabbia e gli dice di avere rispetto.Dopo fanno pace.

Io non lo so se tu credevi o no in Dio, se andavi in chiesa oppure no, se pregavi.

Se hai ringraziato il Signore che ti ha portato via la mamma, quando avevi quindici anni soltanto.E ti ha portato via il papà che ne avevi diciassette. Non so cosa hai pensato l’anno dopo, quando tuo fratello disabile si è suicidato.Quando sei rimasto solo con tua sorella, disabile anche lei.Non lo so, se hai ringraziato il Signore.

Io però ti ho sempre visto che sorridevi.

Mia zia Serena assomiglia a Vittoria Puccini, l’attrice, sai? È alta, bionda e bellissima e dovunque si muove tutti gli uomini si girano a guardarla perché, be’, è impossibile non guardare zia Serena. Ma lei è sempre immersa in qualche libro, e a quegli sguardi non fa neppure caso. 

Ha sempre un fidanzato da qualche parte in giro per l’Italia, qualcuno che va a trovare prendendo treni e altri treni e altri treni ancora. L’unica caratteristica che devono avere i suoi fidanzati, dice mia madre, è: devono vivere ad almeno trecento chilometri da Pescara. Così non li ha sempre addosso, dice lei.

Io penso che invece zia Serena trovi fidanzati a trecento chilometri da Pescara per poterli andare a trovare in treno, e leggere. Lei legge in sala d’attesa, poi legge sul binario, legge sul vagone, e chiude il suo libro proprio un secondo prima di scendere alla stazione d’arrivo. E gli uomini non riescono a non guardare questa bellissima donna alta e bionda, con tutti questi capelli ondulati e splendidi che le cadono sul cappotto nero, con il trolley in una mano e il libro aperto in quell’altra.

Una volta che eravamo a tavola tutti insieme, zia Serena ci ha raccontato delle cose sull’ultimo fidanzato. Non mi ricordo se era Corrado di Lecce o Marco di Monza o Luciano di Rimini, tanto sono tutti uguali e intercambiabili, per me. Mi ricordo che a un certo punto zia Serena ha detto: Gli uomini più incredibili, sui treni, sono quelli che ti attaccano bottone anche se stai leggendo un libro.

Poi ha aggiunto: Ma scusa, ti vedono di fronte che sei immersa nella lettura, non è che non stai facendo niente, non è che guardi fuori dal finestrino annoiata, non è che ti guardi intorno per cercare un maschio interessante, no, sei lì, persa e sprofondata nel tuo romanzo, e questi ti rivolgono la parola, maledetti cafoni.

E cosa ti dicono?, ho chiesto io.

Stupidaggini, Giacomo, stupidaggini. Che caldo in questo vagone, eh? Che freddo in questo vagone, eh? Cose del genere, talmente poco brillanti che bisognerebbe far finta di non aver sentito. E poi, insomma, un uomo che si sente in diritto di rivolgerti la parola mentre stai leggendo un libro è un uomo per cui la lettura di un romanzo non è un’attività, è qualcosa che fai perché ti stai annoiando. Ma in realtà, pensano questi, tu non vedi l’ora che qualcuno ti rivolga la parola. Dicendo cose geniali come: Che caldo in questo vagone, eh?

E poi è scoppiata a ridere.

 

Perché ti parlavo di zia Serena?Ah, sì: perché una volta, tra i tanti uomini che l’avevano disturbata sul treno mentre leggeva, ce n’era stato uno che faceva il calciatore. 

Era estate, e c’era questo ragazzo giovanissimo, più giovane di lei, aveva detto zia Serena, con una tuta, le si era seduto di fronte, aveva provato ad attaccare discorso una volta, due volte, tre volte, e la terza volta la zia aveva guardato fuori dal finestrino sbuffando, mancavano solo cinque minuti all’arrivo, e allora si era rassegnata a parlare con questo ragazzetto per cinque minuti.

Insomma, aveva raccontato zia Serena, questo ha cominciato a dirmi che giocava in una squadra di calcio, che erano in ritiro sulle montagne a ossigenarsi e che stava tornando a casa per un paio di giorni, quanti argomenti interessanti, eh?

Ma di che squadra era, zia?, avevo chiesto. Di serie A, di serie B, era uno famoso?Giacomo, cosa ne so, lo sai che quando si parla di calcio mi si spegne il cervello e mi si azzera la soglia d’attenzione, tranne quando giochi tu, amore mio, naturalmente.Comunque sul treno non lo aveva riconosciuto nessuno, quindi non credo che fosse famoso.

Ah, avevo convenuto io. 

Allora senti, a un certo punto inizia a raccontarmi quanto ci si annoia in ritiro, e io pensavo: Sapessi quanto mi stai annoiando tu, ma non ho detto niente perché sono una donna educata, e questo ha insistito sul fatto che lui e quelli che giocano con lui si annoiano tantissimo in ritiro.

Poverino, pensavo io, solidale con il calciatore sconosciuto.

Zia Serena aveva continuato: Abbiamo solo le carte per distrarci, ha detto il ragazzetto, che era pure carino, ti dirò, assomigliava un po’ al cantante dei Soundgarden, ma uno che fa il calciatore e attacca bottone alle donne che leggono libri sui treni per me può assomigliare anche a Johnny Depp e non mi fa ne´ caldo ne´ freddo.

Be’, ti dicevo, si lamentava che sulle montagne, per distrarsi, non c’erano che le carte, perché il nuovo allenatore aveva proibito di portare la Playstation, e poi aveva proibito di portare questo, e poi di portare quest’altro, e a quel punto io non ho resistito, ero quasi arrivata, e cosa gli ho chiesto, secondo te?Cosa gli hai chiesto, zia?Gli ho chiesto: Ma vi ha proibito anche di portare dei libri? E questo qua ha fatto una faccia stupitissima da pesce lesso, un pesce lesso, proprio, come se gli avessi chiesto chissà cosa, e ha risposto, ti giuro: Ah, questo non lo so, non abbiamo mai provato a chiederlo.Ah ah, avevo riso io.Proprio il mio uomo ideale, eh?, aveva ridacchiato zia Serena.Poi c’è un’altra cosa su zia Serena.Ma te la racconto dopo.

Dopo quella volta lì di Pescara-Bologna, io guardavo la tua maglia del Bologna con il nome sopra e seguivo la tua carriera. 

Non hai giocato tanto con la mia squadra del cuore, solo sedici presenze. E quell’anno siamo rimasti in serie B, alla fine.Tu sei andato al Vicenza, e poi alla Reggina. Al Padova, e all’Udinese. Di nuovo al Vicenza, di nuovo all’Udinese.E poi al Livorno.Già.Al Livorno.

 

Io c’ero, quel sabato. Ero in curva. Pescara-Livorno del 14 aprile 2012. Il sabato andavo a vedere la squadra della mia città, il calcio spumeggiante di Zeman. E guardavo il mio Bologna in serie A, la domenica.

Ti ho visto che ti muovevi senza palla, sulla destra del mio campo visivo.Ti ho visto cadere con la coda dell’occhio.Ti ho visto cadere tre volte. 

Proprio come il Nazareno.

 

Una notte ho sognato che ero te.Ero te proprio in quel momento, il momento in cui il tuo cuore cedeva, il momento in cui cadevi in ginocchio sull’erba di Pescara.Non so quali siano stati nella realtà i tuoi ultimi pensieri. Nel mio sogno, io, che ero te, stavo visualizzando delle frecce su una lavagna. Gli schemi del Mister. I miei movimenti senza palla.E avevo pensato, cadendo con le mani sull’erba: non posso cadere adesso, devo seguire la freccia, devo fare l’inserimento da sinistra.Non posso cadere.Mi sto muovendo senza palla.Cosa farà la squadra, senza il mio movimento senza palla?

Dicevo di zia Serena e della sua passione per i romanzi.Be’, vedi, qualche volta, quando legge qualcosa che le piace particolarmente, qualcosa che vuole assolutamente condividere, lei viene da me e mi racconta tutta la trama della sua ultima scoperta, o mi legge qualche pagina che l’ha entusiasmata.Senti questa pagina bellissima!, dice, e me la recita con la sua voce educata e un po’ rauca da attrice mancata.Allora, una volta è venuta da me e mi ha detto: Ho letto le due più belle pagine sulla morte che siano mai state scritte da qualcuno.Poi ha aggiunto: Non proprio sulla morte. Su quel che succede dopo la morte. Sull’aldilà.

E ha sfilato dalla borsa un libro.

Indignazione. Philip Roth, ha sussurrato, come una formula magica. Poi ha cominciato a leggere.

Oh, me le ricordo benissimo, quelle due paginette rese vive dalla rauca voce della zia.

Mi ricordo la narrazione di un ragazzo morto a diciannove anni, condannato a ricordare quei diciannove anni per sempre. Nient’altro gli accadeva, poteva solo rivivere quella sua breve vita nella memoria, e pensare: La morte sarebbe stata meno terrificante se avessi saputo che non era un infinito nulla ma un eterno rimuginare della memoria su se stessa?In quell’eterno ricordare senza tempo, senza sonno («a meno che non sia tutto sonno, e il sogno di un passato per sempre perduto tenga per sempre compagnia al defunto»), il ragazzo a un certo punto si rende conto che non sa neppure da quanto tempo si trova lì.

Tre ore? 

Milioni di anni?

E il giudizio non ha mai fine, ha letto zia Serena abbassando la voce per rendere più cupa la declamazione di quelle parole. E non perché ci sia una divinità a giudicarti, ma perché le tue azioni vengono per tutto il tempo assillantemente giudicate da te stesso, ha letto ancora.E io immaginavo l’aldilà, quel particolare tipo di aldilà («forse questo è il mio tipo di vita ultraterrena, e come ogni vita è unica, così lo è anche ogni vita ultraterrena») in cui si racconta a se stessi la propria storia «ventiquattr’ore su ventiquattro in un mondo senza ore, galleggiando senza corpo in questa grotta della memoria».Senza riuscire a immaginare un dopo morte più terrificante di così.

È possibile che sia così anche per te? Che tu sia costretto a rivivere la tua vita in eterno, ventiquattr’ore su ventiquattro?E se il tuo particolare tipo di vita ultraterrena fosse solo un eterno rivivere le partite che hai giocato?Le partite con l’Udinese.Le partite col Vicenza, e quelle col Bologna.Le partite con la Reggina, e quelle col Livorno.Sempre così, ventiquattr’ore su ventiquattro, senza potere mai dormire.Per tre ore, o per milioni di anni. 

***

Mio padre non legge romanzi come zia Serena, ma in compenso ha un sacco di libri sul calcio. Io li ho letti tutti.

Ce n’è uno su un calciatore del Cosenza che sembrava si fosse suicidato e invece non si è suicidato davvero, forse. Lo hanno ammazzato, si dice. È un libro di racconti ispirati a questo fatto.Ce n’è uno che mi è piaciuto tanto, di questi racconti, che ti volevo proprio leggere.Sono qui, davanti alla tua maglia, che ti leggo questo racconto.Fa così:

 

Io non so come si chiama questo posto. Non so mica, io, dove mi trovo.Ma so che c’è il pallone. E questo, come quand’ero bambino, mi basta per star bene.C’è l’odore del vecchio parco, in questo posto. L’odore dell’erba tagliata e dell’erba bagnata, l’odore degli alberi quando fiorivano, all’inizio della primavera.Me lo ricordo, il vecchio parco. Mi ricordo il percorso dal pratone delle altalene, vicino al cancello, fino al campo con le reti, laggiù in fondo, verso la ferrovia.Da piccoli non potevamo giocare nel campo con le porte senza reti, no: lì c’erano i bambini più grandi. Allora mettevamo le cartelle nel pratone con l’erba alta per fare i pali, e poi litigavamo per decidere se il pallone calciato era finito più in alto dell’immaginaria traversa. Se potevamo oppure no strillare Gooooool! agitando i pugni, come Tardelli contro la Germania nell’82.Tra il pratone e il campo con le porte senza reti, c’era il campetto da basket. Lo usavano solo dei ragazzi grandi il sabato pomeriggio, tutti gli altri giorni era libero. Così qualche volta lasciavamo il pratone con le cartelle per giocare nel campo da basket, su quell’insolito cemento, su quel campo così stretto, usando i ferretti di sostegno del canestro come complicata e strettissima porta. Era un modo per avvicinarsi al campo senza reti, spiare i ragazzi più grandi mentre ci sbucciavamo le ginocchia nelle scivolate sul cemento grigio.E poi eravamo cresciuti e c’eravamo arrivati tutti, nel campo senza reti. Avevamo una traversa, finalmente! Non si doveva più litigare per un tiro troppo alto!Avevamo dei pali arrugginiti, un rettangolo biancastro dentro il quale mirare, una forma rettangolare dentro la quale correre, gli alberelli su una fascia e le panchine su quell’altra, il campetto da basket dietro una porta e l’area di sgambamento per i cani dietro l’altra.E poi eravamo cresciuti ancora. E le porte senza reti non ci erano bastate più.Avevamo iniziato a sognare il campo più lontano, quello in fondo al parco. Quello con il reticolato ai lati, per impedire che il pallone finisse in strada o in testa ai pensionati. Quello con le fasce lussurreggianti d’erba alta e le aree di rigore raschiate, spoglie, dure come il ferrocemento.E le porte con le reti, soprattutto. Le reti da gonfiare, quando calciavi il pallone di collo pieno o d’esterno o di punta o di piatto, o incornavi di testa in stacco prepotente o spizzavi appena con la tempia o ti immolavi sul ferro cemento librandoti in tuffo, e il pallone superava il guanto improvvisato del portiere e non rotolava più nell’area dei cani o sul cemento del campo di basket dove dovevi correre a raccoglierlo, no, terminava la sua corsa muovendo i fili bianchi della rete, pluff, rimaneva lì, impigliato tra quei fili, oppure tornava un po’ indietro, verso il campo. Certificando, senza dubbio alcuno, che avevi fatto GOL.

Questo, prima di tutto.Prima delle maglie con i numeri e delle scarpe coi tacchetti e dell’olio canforato e delle gradinate e dei cori……e di tutto, tutto, TUTTO il resto.

Io non lo so dove mi trovo. Non lo so come si chiama questo posto.Ma c’è l’odore dell’erba tagliata. E c’è l’odore dell’erba bagnata.Io credo che sia il paradiso, perché ci sono le reti in fondo alle porte, da gonfiare quando urlo Goooool agitando i pugni, come Tardelli contro la Germania nell’82.Già.Credo che sia il paradiso.

 

Ecco, era questo, il racconto.

Ci penso anch’io, a come potrebbe essere il paradiso. Dev’essere il posto più bello che si possa immaginare, e quindi non è di certo quel luogo che s’immagina mia nonna, dove tutti stanno in eterna contemplazione di Dio. Quello è un posto noioso, e la noia non è una cosa bella. È una cosa brutta.

No: per me il paradiso è un posto in cui puoi fare, per sempre e ogni volta che vuoi, le cose che ti piacciono di più. E se tu adesso sei là, tu che non hai segnato tanti gol in carriera, uno nel Vicenza e uno nell’Under 17, se tu adesso sei là io immagino che stia spiovendo un pallone al limite dell’area, respinto dalla difesa. E che tu ci stia arrivando con una coordinazione perfetta. Immagino che tu abbia appena calciato di collo piede, una rasoiata secca, dritta, precisa.

E che tu abbia appena provato quella sensazione bellissima, quella che ti elettrizza e ti fa spalancare gli occhi quando capisci che il portiere si è tuffato ma non ci arriverà, e che lo hai indirizzato bene, nell’angolino, quel tiro…

E poi il pallone toccherà l’interno del palo.

Ci sarà un attimo di palpitante attesa, che l’attesa del piacere è essa stessa piacere, e perché un po’ di sofferenza intensifica la gioia.

Dall’interno del palo il pallone rimbalzerà dalla parte giusta, e andrà a gonfiare la rete. Perché la sfortuna, per chi ha sofferto tanto sulla terra, in paradiso non esiste. 

E allora alzerai le braccia verso il pubblico.Che starà gridando, in un sol coro: Gol.

Mentre tu, come sempre, sorridi.

Ciao Piermario.